(Il Mattino) – Un attacco alla democrazia. La Tunisia aveva recentemente votato per l’elezione del nuovo capo dello Stato, Essebsi, dando un chiaro segnale di slancio democratico e una risposta al terrorismo interno, che dalla caduta di Ben Ali ha conquistato terreno anche in Tunisia. L’attentato dell’altro ieri al Museo Bardo ha rappresentato, oltre che un attacco alla cultura, un attacco alla democrazia e al turismo, spina dorsale dell’economia tunisina. L’attacco, per citare le parole del Presidente della Repubblica Mattarella, è doloroso perché ha causato diverse vittime, ma soprattutto è preoccupante per due motivi: l’evidenza di un consolidato clima di estremismo religioso nella regione nordafricana, in particolare in Libia e Tunisia, e la possibilità di un nuovo intervento straniero per evitare che il “vulcano nordafricano” possa eruttare e far arrivare la sua lava incandescente sulle rive della vicina Europa.
Alla luce di quanto accaduto a Tunisi e di quanto sta accadendo in Libia, la comunità internazionale e quella araba rappresentata dalla Lega Araba si trovano oggi a dover seriamente pensare se lanciare un intervento finalizzato a contenere la crescente minaccia non tanto dello Stato Islamico inteso come organizzazione strutturata, quanto del dilagante sentimento religioso estremista capace di creare un terreno fertile per azioni “isolate” come quella di Tunisi così come quella di Parigi, nei mesi scorsi.
Se è vero che nella regione nordafricana sono attive diverse organizzazioni terroristiche, esistono contatti fra i terroristi tunisini, libici, algerini e marocchini. Contatti spesso facilitati da soggetti terzi come i contrabbandieri e i fiancheggiatori. Inoltre, è chiara l’intenzione da parte dello Stato Islamico (IS), che per ora ha ufficialmente creato le sue tre province in Libia – Fezzan, Tripolitania e Barqa (Cirenaica) – di estendere non soltanto la sua influenza ma la sua struttura organizzativa nei paesi vicini, in primis la Tunisia, dove i principali gruppi jihadisti – la brigata Uqbat ben Nafi e Ansar al-Sharia – sono attivi da almeno due anni e hanno inviato al Califfo Al-Baghdadi centinaia di combattenti.
La Libia è attualmente un Paese spaccato e in preda a una guerra civile. Persistono due governi, due parlamenti, due forze armate – “Alba della Libia”, sostenute dal governo di Tripoli, e “Dignità della Libia”, guidate dal Generale Khalifa Haftar e sostenute dal Premier ad interim Al-Thini. In questo precario scenario si inserisce la minaccia jihadista, anch’essa spaccata fra l’IS in Libia e Ansar al-Sharia libico, che non ha ancora giurato fedeltà al leader dell’IS, Abu Bakr al-Baghdadi.
Il deterioramento della situazione in Libia ha spinto l’inviato ONU nel Paese, Bernardino León, ha esortare tutti gli attori libici a raggiungere urgentemente un accordo per una soluzione pacifica della crisi. In caso contrario, ha dichiarato León, lo Stato libico è destinato al fallimento. Una dichiarazione che presagisce uno scenario siro-iracheno in Libia, con tutto ciò che ne consegue sul fronte economico, umanitario e di sicurezza. A ciò va aggiunta la considerazione che, a differenza del teatro siro-iracheno, la crisi libica ha un impatto diretto non soltanto sulla regione del Nord Africa – come dimostra l’ultimo attentato a Tunisi – ma anche sull’Europa, e in particolare l’Italia.
Il premier libico Al-Thini, in una conferenza stampa tenutasi ieri ad Al-Bayda, nella Cirenaica, è tornato a esortare la comunità internazionale a sostenere la lotta al terrorismo in Libia, per evitare che questo possa minare la stabilità dell’intera regione e dei vicini Paesi europei. Al-Thini propone la formazione di una coalizione contro il terrorismo e la costituzione di un contingente arabo in grado di intervenire. Un’altra dichiarazione di Al-Thini conferma la trasversalità della minaccia terroristica nella regione e la necessità di pensare a un comprehensive approach: “la sicurezza e la stabilità della Tunisia dipende dalla sicurezza e dalla stabilità della Libia”, ha affermato ieri il premier libico in un colloquio telefonico con il Presidente tunisino Essebsi. Una preoccupazione espressa anche dal Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, durante una conferenza stampa l’altro ieri a Roma, con il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni.
Questa mobilitazione libico-tunisina contro il terrorismo non può e non deve essere scollegata dalla mobilitazione egiziano-giordana contro la minaccia dello Stato Islamico. Sotto un profilo geopolitico e strategico, stiamo assistendo a una mobilitazione compatta all’interno del mondo musulmano sunnita contro un’organizzazione musulmana sunnita che ha sposato l’ideologia salafita-jihadista, lo Stato Islamico.
Dunque, cosa fare? E in che modo? Questo fronte arabo-sunnita contro la minaccia jihadista dell’IS ha bisogno oggi di un forte sostegno da parte della comunità internazionale, che a sua volta non può mostrarsi spaccata e indebolita da contrasti interni. Sotto il profilo strategico, un nuovo intervento militare occidentale in Libia potrebbe rappresentare una carta sfruttabile dall’IS per acquisire consensi e dimostrare alle masse arabo-musulmane che gli occidentali sono e rimarranno i “crociati”. Un’azione più riflessiva, e strategicamente più remunerativa, potrebbe invece essere quella di sostenere, e far crescere, questa nuova “Nato” che si va creando all’interno del mondo arabo-sunnita di fronte a un nemico comune, l’IS. Tra le varie opzioni, questa potrebbe essere quella che rappresenta l’inizio di una strada che può portare non soltanto al contenimento della minaccia terroristica ma alla prospettiva di una maggiore stabilità nell’intera regione.
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