
La sottoscrizione dell’accordo tra i leader dei Tebu e degli Awlad Sulayman alla presenza del vice capo del Consiglio presidenziale ‘Abd al-Salam Kajman a Roma
Da inizio febbraio, Sebha è teatro di scontri armati tra le due tribù rivali dei Tebu e degli Awlad Sulayman. Secondo quanto riportato da Libya Herald il 1° febbraio, “la notte vi sono stati scontri tra le due tribù provocati da una serie di omicidi di rappresaglia”. Negli scontri, che proseguono tuttora nonostante gli sforzi di mediazione su più fronti, vengono utilizzate armi leggere, medie e pesanti, compresa l’artiglieria. Secondo Libya Herald, la miccia degli scontri è stata innescata il 28 gennaio, quando “un individuo a bordo di un veicolo con i vetri oscurati facente capo agli Awlad Sulayman ha aperto il fuoco contro tre membri dei Tebu in un locale, provocando la morte di uno di loro e il ferimento degli altri due”. Questo omicidio ha innescato una serie di uccisioni di rappresaglia e la conseguente ripresa degli scontri all’interno della città, in particolare: nell’accesso meridionale, dove la notte del 4 febbraio due persone sono morte a causa dell’esplosione di un colpo di mortaio e le schegge hanno ferito un’altra persona, mentre una donna è stata ferita da un colpo di arma fa fuoco; nel centro della città, nei pressi della caserma della 6^ Brigata “Faris”, affiliata agli Awlad Sulayman; sempre nei pressi della sede della 6^ Brigata, nel quartiere di Al-Tawiriya, un razzo si è abbattuto su una moschea, come riportato da Libya’s Channel il 24 febbraio; ad Al-Qarda, dove un razzo è caduto sulla moschea “Al-Abrar”, mentre un secondo si è schiantato sul terreno vuoto di un cittadino di Sebha. Perfino il Centro medico di Sebha non è stato risparmiato dagli scontri, come riferito il 28 febbraio dall’ufficio stampa dell’ospedale, secondo cui diversi razzi si sono schiantati “sull’ufficio finanziario, sul quartiere abitativo riservato ai medici che lavorano nel Centro e nel cortile dell’ospedale”, provocando almeno un ferito. Finora non si hanno dati accreditati sul bilancio di morti e feriti tra i civili e le due fazioni in lotta, perché i quartieri residenziali sono isolati e dal loro interno filtrano pochissime informazioni.
Il 27 febbraio, il Consiglio presidenziale guidato da Fayez al-Sarraj, Premier del governo di accordo nazionale che gode del riconoscimento internazionale, ha pubblicato un comunicato in cui ha annunciato che “qualsiasi attacco alle caserme e alle sedi dell’esercito” – con riferimento agli attacchi contro la 6^ Brigata, una forza composta dai membri degli Awlad Sulayman e facente capo al governo di accordo nazionale – “rappresenta un attacco alla sovranità nazionale libica e minaccia la sicurezza dell’intero paese”, accusando “gruppi mercenari e stranieri” – ciadiani – di essere responsabili di questi attacchi “respinti dalle truppe dell’esercito”.
Questo comunicato ha scatenato la condanna dei Tebu, rappresentati dal loro “Sultano”, Ahmad I, leader delle tribù Tebu a Murzuch, nel sud della Libia, il quale ha condannato il coinvolgimento da parte del Consiglio presidenziale di “gruppi stranieri e mercenari” ciadiani, rappresentando questo coinvolgimento un’implicita accusa alla tribù dei Tebu, la cui popolazione ha forti legami con il Ciad. In particolare, il leader dei Tebu ha sottolineato che il comunicato del Consiglio presidenziale “rappresenta una legittimazione delle milizie criminali facenti capo agli Awlad Sulayman”, rivolgendo al Consiglio l’implicita accusa di propendere per una delle fazioni in lotta. Ahmad I ha chiarito che quello in atto a Sebha è un conflitto tribale: il Sultano dei Tebu afferma che “vi sono sforzi in corso su più fronti per risolvere il problema tribale tra i Tebu e gli Awlad Sulayman, l’ultimo dei quali rappresentato dall’arrivo di una delegazione sociale composta da saggi e notabili di Barqa (Cirenaica) per risolvere i problemi attraverso il dialogo e la riconciliazione tra le due parti”. Ahmad I ha quindi chiesto all’ONU di “intervenire urgentemente per fermare i combattimenti e il bombardamento indiscriminato contro i quartieri della città”.
Da parte sua, l’UNSMIL ha espresso il 1° marzo grande preoccupazione a causa dell’escalation militare in corso a Sebha, chiedendo di porre fine “all’utilizzo indiscriminato di armi nelle aree densamente popolate”, riferendo la morte di almeno sei civili e il ferimento di altri nove. Anche la Mezzaluna Rossa di Sebha ha ribadito il suo appello alle fazioni in lotta nella città di cessare il fuoco per permettere l’evacuazione delle famiglie intrappolate nelle aree di scontro e di non bombardare gli ospedali e le case. Il Presidente della Mezzaluna Rossa a Sebha, Muhammad al-Mabruk, ha dichiarato a Libya’s Channel che i volontari della Mezzaluna Rossa sono riusciti ad evacuare diverse famiglie e a dar loro rifugio in varie scuole in aree più sicure, confermando che, il 1° marzo, il numero degli sfollati a Sebha è salito a 5400 persone.
Quelle degli Awlad Sulayman e dei Tebu, assieme ai Tuareg, sono tra le tribù più influenti nel sud della Libia, entrate in una spirale di conflitti a partire dal 2012, dopo la rivoluzione libica. La scomparsa del dittatore Muammar Gheddafi, ha permesso il riaffiorare di tensioni che covavano sotto le ceneri della sua politica, fondata sul divide et impera, col fine di mantenere il potere mettendo le varie tribù libiche le une contro le altre.
Il 29 marzo 2017, le due tribù rivali hanno sottoscritto un accordo di riconciliazione a Roma per porre fine alle tensioni e ai continui, seppur intermittenti, scontri. L’accordo, negoziato dal governo italiano, rappresentato dal suo Ministro dell’Interno, Marco Minniti, e dal Consiglio presidenziale, è stato sponsorizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e prevedeva “la fine permanente dei combattimenti, il pagamento di un indennizzo alle persone danneggiate dai combattimenti, l’evacuazione di tutti gli edifici statali dai gruppi armati e la consegna dei criminali alla giustizia”. Stando ai termini dell’accordo, il pagamento di questi indennizzi sarebbero stati a carico del governo italiano, che, tramite la sigla di questo accordo, mirava non solo a consolidarsi come partner ed efficiente sostenitore del Consiglio presidenziale, cui affidava il proprio endorsement per ripristinare la pace nel sud della Libia, ma anche a ristabilire la sicurezza nella prospettiva di contrastare il traffico di esseri umani e il terrorismo, le cui attività prosperano nel sud della Libia a causa dell’assenza degli apparati statali.